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Innovazione trasformativa e multidisciplinarietà nella ricerca: le fondamenta di ITIR per avvicinare il futuro

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C’era una volta… 

C’era una volta, tanto tempo fa, un’epoca in cui l’innovazione era concepita pressoché unicamente come progresso tecnologico: il microchip, un nuovo medicinale per una terribile malattia, la rete internet, e così via. Non a caso, gli studi in tema di economia e management dell’innovazione – al tempo – erano in gran parte basati sull’analisi della capacità aziendale e di un sistema Paese nel depositare brevetti.

Poi – tutto ad un tratto – una serie di sbarbatelli con la maglietta dei Metallica insegna al mondo intero che si può fare innovazione anche in un garage, non solo in laboratorio. Il messaggio è forte: un’idea semplice ma geniale può essere dirompente tanto quanto una tecnologia rivoluzionaria. Certo, oggi realtà come Google, Facebook o Amazon sono concentrati poderosi di tecnologia. Tuttavia, all’epoca dei loro inizi non era questo il segreto del loro successo, c’era una visione del futuro particolarmente illuminata unitamente ad una gran trovata: indicizzare le pagine web sulla base delle referenze di altri siti e non solo sul numero di visite (Google), usare internet per abilitare le relazioni sociali fra persone che già si conoscono (Facebook), vendere libri online valorizzando i dati tracciati per offrire un’esperienza migliore e trasformare la pubblicità da “messaggi noiosi e anonimi” a “utili consigli mirati” (Amazon). È questa l’epoca in cui nasce l’hype sulle startup, sull’open innovation e gli ecosistemi, sull’innovazione a livello di modello di business, un concetto quest’ultimo che sostanzialmente viene concettualizzato solo a partire dal 2004 da Alex Osterwalder (prima se ne faceva solo qualche raro uso e in assenza di una chiara definizione).1

Oggi, siamo di fronte ad un ulteriore cambiamento epocale, ad un nuovo modo di concepire il significato stesso di innovazione. I colossi dell’economia digitale dichiarano migliaia di licenziamenti, mentre realtà diventate famose anche per via di sedi di lavoro variopinte con tavoli da ping pong vengono oggi dipinte come pessimi esempi di inutile burocrazia. Siamo all’alba di una nuova era nel modo in cui imprese ed università fanno ricerca e innovazione.

L’alba di una nuova era nel fare ricerca e innovazione

La pandemia è stata un primo poderoso turning point rispetto alla necessità di ripensare cosa significa “innovazione” e come si fa ricerca, tanto in accademia quanto in azienda. In altri termini, il Covid ci ha ricordato in modo brutale il disperato bisogno – più che mai – di scienza e di cultura della scienza. Fino all’emergenza SARS-CoV-2, servivano in media quattro anni per sviluppare un vaccino: di fronte ad una crisi socio-sanitaria mai vista, nel 2020 ce la si è fatta in pochi mesi (addirittura in poche settimane, se si considera il mero sviluppo del “prodotto”, prima della sperimentazione). 

La scienza può fare cose strepitose: dobbiamo investire e credere in essa, oggi più che in passato. Tuttavia, qualcosa va cambiato: occorre fare ricerca in modo etico, sostenibile, con chiaro in mente da subito il suo impatto, tanto economico quanto sociale.Quest’ultimo passaggio è cruciale: stiamo entrando in una terza epoca dell’innovazione (qualcuno dice quarta, ma la sostanza poco cambia) dove le due filosofie precendenti convergono: enfasi sempre maggiore su scienza e tecnologia, ma in modo nativamente integrato con ragionamenti a livello di business model, con una chiara vision circa i bisogni latenti attuali ed emergenti futuri della nostra società, coinvolgendo i principali stakeholder (non solo chi eroga fondi pubblichi, anche imprese, utenti finali, etc.) in una logica di co-production.

Multidisciplinarietà come driver di cambiamento

L’epoca in cui un ricercatore inventa una tecnologia dirompente pensando “qualcun’altro poi pensarà a cosa serve e quali impatti avrà” è finita? Forse. Di certo però la rivoluzione sopra citata mette al centro pure il concetto di “multidisciplinarietà”, dove un chimico si trova a dover discutere delle sue ricerche con un professore – ad esempio – di strategia aziendale o di comunicazione, e viceversa. Non solo al bar, ma per raggiungere risultati davvero strepitosi e con tempistiche compatibili con la velocità esponenziale degli anni che stiamo vivendo. 

Alcuni fanno riferimento a questo paradigma con il termine “Deep-tech”2, il quale non riguarda solo tecnologie particolarmente avanzate e/o di base, quanto appunto un progresso scientifico che da subito – dalle primissime fasi di ricerca – si interroga su: dinamiche di mercato, bisogni reali da soddisfare, impatto sociale, processo di diffusione (che segue anche dinamiche psicologiche e comportamentali, non solo razionali).Probabilmente la pandemia – per varie ragioni – è il punto di svolta più rilevante di questa rivoluzione, ma ad enfatizzarla ci ha pensato l’intreccio di una serie di “grand challenges” che può dirsi senza precedenti per impatto su scala globale e simultaneità delle stesse. Oltre alla terribile crisi socio-sanitaria sopra citata, ci si riferisce a cambiamento climatico, crisi geopolitiche, resource shortage (energie comprese), opportunità ma anche punti interrogativi legati alle tecnologie esponenziali (es. intelligenza artificiale, genomica) e così via.

Innovazione trasformativa: siamo pronti?

In un contesto del genere, tutto è in profonda “trasformazione”, un termine quest’ultimo sempre più usato ed abusato, nelle sue diverse declinazioni: business transformation, digital transformation, transizione ecologica, transformational leadership e chi più ne ha più ne metta. Ma siamo davvero di fronte a qualcosa di nuovo, o è solo una “buzzword” alla moda senza sostanza? In fondo, imprese, società e settori si rinnovano da sempre. Oggi con maggior frequenza e velocità? Sì, senza dubbio, ma ciò basta per prefigurare un vero e proprio nuovo modello di cambiamento

Come spesso capita, la verità sta nel mezzo: accanto ad alcuni capisaldi che probabilmente restano validi, le moderne “transformation” prefigurano forme di cambiamento con connotati originali, diversi dal passato. Una riflessione che nasce da una curiosità intellettuale, ma che è dannatamente concreta: se le imprese – o i sistemi Paese – non comprendono a fondo tali differenze, si finisce con il guidare il cambiamento / la trasformazione basandosi su competenze e strumenti obsoleti rispetto alle nuove sfide, odierne e/o del prossimo futuro.

Si entra pertanto nell’era dell’innovazione trasformativa, dove ripensamenti radicali del modello di business, trasformazione digitale e transizione verso modelli sostenibili rappresentano un’unica traiettoria di cambiamento epocale, non tre differenti direttrici. Infatti, la trasformazione digitale – quella che porta davvero risultati – non è ipotizzabile senza ripensare in profondità il core-business. Lo stesso vale per la transizione ecologica, altrimenti è solo greenwashing. Per non parlare dell’intreccio fra sostenibilità e digitalizzazione, un tema sempre più strategico e attuale3. Infine, è vero che – teoricamente – si può rivoluzionare il proprio core-business ignorando le leve digitali e al tempo stesso scordandosi di considerare anche l’impatto socio-ambientale, ma farcela con successo nello scenario contemporaneo, al cospetto delle grand challenges sopra richiamate, è semplicemente utopico.

In sintesi, si sta parlando di una sola trasformazione, o se vogliamo “one-trasformation”, o ancora, innovazione trasformativa. Affrontarla frammentandola in sottocategorie è il miglior modo per fallire. Alla luce delle nostre recenti ricerche sul tema, definiamo l’innovazione trasformativa come un cambiamento epocale a livello di significati e modalità mediante cui un’organizzazione opera, puntando ad un rilevante impatto tanto per l’organizzazione stessa quanto per la società. Ciò prevede un nuovo “purpose”, quale combinato disposto tra vision, mission e valori aziendali, verso obiettivi alti, ambiziosi e motivanti. Ma anche – nei fatti – il passaggio verso nuovi paradigmi tecnologici (es. dai combustibili fossili all’elettrico, dalla manifattura tradizione a quella additiva, dalla medicina standardizzata a quella di precisione, etc.). Infine, si tratta di trasformazioni sistemiche e irreversibili, che quindi impattano sull’intera organizzazione per poi propagarsi nel suo eco-sistema, anziché riguardare solo poche unità/dipartimenti.

La Sfida di ITIR

L’Università non può stare a guardare: in uno scenario del genere, servono centri di ricerca che trovano il modo per accelerare in quanto a studi multidisciplinari, che si interrogano su nuove logiche di interazione con imprese e società, nonché su nuovi paradigmi di trasferimento tecnologico  (sempre più iterativo e agile, sempre meno sequenziale nel flusso ricerca-applicazioni commerciali), che si ispirano ai principi dell’innovazione trasformativa e pertanto arrivano a ripensare il modo stesso con cui fanno ricerca.

L’ “Institute for Transformative Innovation Research” (ITIR) nasce proprio per raccogliere queste sfide e – con la forza della sua squadra e delle sue scelte – vincerle.

Note a piè di pagina

  1. Tutto ha inizio dalla tesi di dottorato di Alex Osterwalder dal titolo “The business model ontology a proposition in a design science approach” nel 2004, cui hanno fatto seguito numerosi volumi e una serie articoli scientifici, ovviamente anche da parte di altri autori, come Zott, C; Amit, R and Massa, (2011) “The Business Model: Recent Developments and Future Research”, Journal of Management, 37 (4) , pp.1019-1042.
  2. Si veda anche: Bagnoli C., Portincaso M. (2021) “Deeptech: la nuova onda d’innovazione che le imprese italiane devono cavalcare”, Harvard Business Review Italia.
  3. Per approfondire si veda il volume del 2020 dal titolo “Sostenibilità Digitale: Perché la sostenibilità non può fare a meno della trasformazione digitale”, di Stefano Epifani.